Ciro a cuore aperto in esclusiva su ilmessaggero.it: «Non so se chiuderò qui la carriera, del mio futuro parlo in famiglia ma per questa maglia ho sempre dato tutto»

Il battito dei suoi pensieri segue quello dei suoi gol. Ora è un momento no. Immobile è un leone ferito: «Sì, un po’ lo sono», ammette a denti stretti, gli occhi lucidi e un sorriso amaro. Lo incontriamo a Formello di prima mattina, in pantaloncini, pronto per le cure, con lo sguardo all’ingiù, ma ancora con tanti lampi di gioia e d’orgoglio. Ciro è tutt’altro che finito, ha gli anni di Cristo e non esclude mai il ritorno al futuro: «Le reti, le ritroverò. Il problema non è quello. Forse molti si dimenticano che, quando sono arrivato qui, nel 2016, non era come adesso. Non si sapeva nemmeno chi sarebbe stato l’allenatore. Adesso che facciamo la Champions mi vogliono parcheggiare fuori? Non mi sembra il massimo come riconoscimento. Ma io vado avanti, come ho sempre fatto».

Appunto. Come sta il flessore destro? Quando c’è di mezzo Ciro, cala sempre un velo di mistero. «È un infortunio particolare, già avevo sentito tirare la coscia nella partita con il Celtic. Ultimamente sono diventato esperto con gli infortuni (ride, ndr), mi sono reso conto subito che qualcosa che non andava. Per fortuna non è niente di grave, lunedì avrò un’altra risonanza, il muscolo andrà valutato di giorno in giorno».

Duecento reti con questa maglia a un passo. Ogni volta che si avvicina una cifra tonda, c’è un ingorgo. «Forse anche quella pressione mi condiziona, è un numero veramente importante. Mi era già successo con quota 100. Per prima cosa però devo tornare in campo, altrimenti non posso gonfiare la rete».

Possono bastare dieci partite a far dimenticare chi ha fatto la storia della Lazio? «A quanto pare sì. Ma solo per alcuni, perché poi anche domenica gli striscioni della Nord e della Maestrelli mi hanno emozionato, mostrandomi il loro sostegno in un momento delicato».

È il più difficile di sempre? «No. Il primo anno forse è stato il più complicato perché il mio popolo doveva imparare a conoscermi e diceva di tutto. Ora c’è solo una piccola parte della gente, che non so nemmeno se definire veri tifosi della Lazio, che mi contesta. Non credo che il vero laziale possa dirmi qualcosa, non ci credo. È solo una questione di tempo e farò ricredere anche il più scettico».

Gli effetti della scorsa stagione maledetta, anche con l’incidente in auto, si fanno sentire? «Sicuramente non mi hanno aiutato. Prima i tanti infortuni, poi l’incidente in macchina con le mie bimbe. Un po’ il corpo e la testa ne hanno risentito, ma non penso di portarmeli ancora dietro. Forse ho un altro tipo di blocco, dovrei giocare con la testa più libera e con il corpo meno contratto».

Da dove si riparte? «Quando vedi che le cose vanno bene cerchi di allenarti come hai sempre fatto, quando invece vanno male torni a fare le cose più semplici per ritrovarti. Se capisci che è un momento un po’ così, cerchi di non strafare perché poi fai peggio. A parte la mia situazione personale, anche la squadra ha sofferto un inizio di campionato infelice e io ho bisogno che tutto giri al meglio per segnare. Andate a vedere quante palle-gol ho avuto...».

C’è chi dice che nel 3-5-2 si sentiva più libero. «Non c’entra nulla il modulo, ho fatto 27 reti anche con il 4-3-3 e 12 l’anno scorso, avendo saltato la metà delle partite, forse qualcuno non se n’è accorto».

Servono più assist da Zaccagni e Felipe Anderson? «Credo che tutti avessero bisogno di sbloccarsi e la vittoria con l’Atalanta può aver segnato una svolta in un campionato in cui non siamo arrivati abbastanza pronti all’impatto e in cui abbiamo subito un calendario tostissimo».

C’è nostalgia anche delle verticalizzazioni di Milinkovic «Manca a tutti. Ma quante volte l’addio di un grande campione fa emergere la forza del gruppo? I rinforzi hanno sofferto l’inizio, come successe a noi i primi tempi con Sarri, ma ora già sono dentro gli schemi e il suo calcio. Nuovi e veterani insieme, dobbiamo essere bravi a sopperire all’assenza di Sergio sia a livello tecnico che nello spogliatoio. Lui ha fatto la sua scelta in estate».

Opposta a quella di Ciro, ma dall’Arabia continuano a bussare per gennaio. «È una soluzione che avevo preso in considerazione quest’estate quando era arrivata qualche offerta, poi però ho deciso di rifiutarla per la Nazionale e la Champions. Dopo un inizio di campionato così, qualche domanda me la sono fatta, specialmente dopo le critiche di alcuni, fortunatamente non tutti, che non hanno visto e apprezzato il gesto ma hanno subito presentato il conto. Questo mi fa male, anzi mi fa vacillare. E ora il mio pensiero non è più lo stesso di luglio. Alcuni giorni, quando ero più giù di morale, ho pensato “era meglio se me ne andavo”».

Sente ancora la fiducia di Sarri e Lotito? «Del mister sempre, ci parlo tutti i giorni e sono tranquillo. Per il presidente io sono un figlio, ci siamo sempre detti le cose in faccia. Quindi, quando arriverà il momento in cui io non riesco più a dargli quello che si aspetta, le nostre strade si divideranno».

Smentiamo un falso mito: Immobile non ha mai voluto un vice che potesse sostituirlo. «Da un lato mi fa piacere che si pensi che io abbia così tanto potere qui da decidere chi acquistare e in quali ruoli, ma il mio unico “potere”, in quanto capitano, sta nello spogliatoio. Fuori, può al massimo esserci stata qualche chiacchierata su qualche rinforzo».

Ma come, due anni fa firmò una carta privata con Sarri e Lotito per gli acquisti da fare sul mercato... «È stata più una cosa simpatica, non dal valore reale, il mio sigillo. Diciamo che ho fatto da garante e testimone su un patto per gli acquisti che erano già stati decisi dal mister e dal patron».

In quel foglio c'era il nome di Caputo.

«Sì, è vero, poi si fece male e cambiarono i programmi. Non è vero invece che io non ho mai voluto un sostituto perché con il calcio che giochiamo, a ritmi altissimi, serve un altro bomber pronto, che ci possa dare una mano. Se una società vuole crescere in termini di obiettivi e poi di risultati, è fondamentale avere due giocatori per ogni ruolo».

Un giorno Castellanos sarà il suo erede?

«Non voglio mettere pressione al Taty. Ha un peso essere il mio successore e io non lo auguro a nessuno. Mi è capitato a Dortmund con Lewandovski e a Siviglia con Bacca, non è il massimo».

Il ricordo più bello e il rammarico più grande.

«Il rimorso è sicuramente il finale di stagione del 2020. Eravamo davvero in un periodo forte, ci sentivamo un rullo compressore, un treno che andava a mille all'ora e non poteva fermarci nessuno. Invece ci ha stoppato il Covid, è finito tutto, anche il sogno scudetto. Sia con Inzaghi che con Sarri ho vissuto tanti bei momenti. Ho amato i derby in cui non ho giocato e me li sono goduti, senza ansia, grazie al successo».

Come vive le stracittadine dopo tanti anni?

«Ancora in maniera particolare. Qui è una partita unica, non esiste nulla di simile in giro per il mondo. Nella capitale può spostare gli equilibri mentali per mesi, anche nella tua vita quotidiana. La rivalità va oltre ogni pensiero».

E come ha coltivato allora l'amicizia con Pellegrini, capitano dell'altra sponda?

«Prima con Lorenzo ci vedevamo di più, a casa o in qualche ristorante. Sopratutto quando sono nati i nostri figli, a pochi giorni di distanza, nella stessa clinica».

Martedì la Nazionale torna a Wembley dov'è arrivato il trionfo dell'Europeo.

«Un'emozione pazzesca. Vincere con l'Italia in casa degli avversari è qualcosa di unico. E stata una cavalcata bellissima, mi porto dentro tutto il viaggio: dal ritiro in Sardegna alla finale. Eravamo un gruppo con fame di vittoria e saremo legati per sempre».

Eppure il suo rapporto con l'Italia sembra sempre così problematico.

«Mai avuto un problema con nessun ct, è stato creato tutto dall'esterno. Ormai, anche chi non vede le partite mi critica, va di moda. Quando ti mettono un marchio addosso, è difficile toglierselo».

Non le dà fastidio sentire che non esistono centravanti nel nostro Paese?

«Ho vinto la Scarpa d'Oro, ma magari si aspettavano più gol da me. Invece di 200, dovevo farne 400».

Com'è il nuovo rapporto con Spalletti?

«Ottimo, mi ha fatto molto piacere che mi abbia dato la fascia da capitano, è stato un gesto importante che non mi aspettavo. Ho chiamato subito la mia famiglia, ero emozionato. Farà un bel percorso perché parla molto con i giocatori, le motivazioni sono fondamentali e lui riesce sempre a darle a ognuno».

Su quale attaccante scommetterebbe per il futuro azzurro?

«Quelli a disposizione sono tutti bravi, ma gli manca la continuità. Fare una stagione da 20 reti è facile, farne 4-5 allo stesso ritmo è più complicato. Se fai la punta, devi metterti almeno 2-3 annate consecutive con certi numeri nel curriculum. A me piace molto Raspadori. E' umile e ha il veleno, tecnicamente bravo, ha personalità e sa fare tutto. E entrato nell'Europeo ed è continuo pur avendo davanti Osimhen e non giocando spesso».

E di Berardi che dice: non lo ha convinto a venire alla Lazio?

«No (ride, ndr), l'ho visto in Nazionale ma non ne abbiamo parlato perché è andato via subito».

Pensa ancora di chiudere la carriera alla Lazio?

«In questo momento dico sì e no. Non vorrei rispondere al volo, ci sto pensando da un po' con la mia famiglia. Intanto devo tornare in forma e in campo al meglio. Una volta che ci sarò riuscito, potrò decidere davvero. Ora direi di no perché sono in un periodo negativo e sono infortunato, ma se avessi fatto 20 gol direi sì. Quindi la mia decisione non deve essere dettata dal momento. Sicuramente se prima ero convintissimo di rimanere a vita, ora lo sono un po' meno. Sono un po' ferito».

E come vede il suo futuro?

«Sicuramente alla Lazio, ma non so in quale ruolo. Deciderà il presidente, mi troverà qualcosa, lui non metterà mai in dubbio tutto ciò che ho fatto. Io amo la Lazio. E si dice che più ami qualcosa e più ci rimani male ed è quello che sta capitando a me. Quello che ho sempre detto, e che mi dispiace, è che prima di valutare quello che viene fatto in campo, mi piacerebbe che la gente mi valutasse anche per quello che sono fuori, come uomo. Non ho mai detto una parola fuori posto, i tifosi della Roma quando mi incontrano per strada mi dicono "Non ti abbiamo mai visto fare una provocazione verso di noi" e per questo mi rispettano. I veri laziali mi hanno sempre riconosciuto prima come persona e poi come calciatore, e lo abbiamo visto anche domenica pomeriggio. Anche qui in società hanno deciso di farmi capitano, non perché avessi più presenze, ma per il ruolo e le responsabilità che mi assumevo. Ci sono tante componenti che mi hanno spinto a dare tutto per la maglia che indosso».

In conclusione, per quello che ci ha raccontato, immaginiamo che il titolo di questa intervista non potrà essere "Lazio per sempre", vero?

«No, perché poi la gente si fermerebbe solo al titolo, mentre io non so cosa succederà a gennaio o giugno. Non ho mai avuto paura di mettermi in discussione, né quando sono andato all'estero né quando sono tornato qui. Vedremo». Ilmessaggero.it

SERIE B | Torna in campo la Lazio Women: domani la sfida con il Bologna
CorSera | Zaccagni salta Malta ma resta in azzurro