Ivan Provedel si racconta: "Lavoro tutti i giorni per dimostrare di essere all'altezza della Lazio"
Nel numero prossimo all'uscita di Lazio Style Magazine è contenuta un'intervista a Ivan Provedel, un giocatore divenuto ormai fondamentale nella rosa di Maurizio Sarri. Queste le sue parole: Partiamo con una curiosità: ma veramente i tuoi nonni materni erano vicini di casa del leggendario portiere russo Yashin? «Sì, confermo: vivevano in una stessa via di Mosca. Si conoscevano bene, mia nonna quando ero piccolo mi raccontava che li vicino abitava un grande portiere. Ho capito solamente anni dopo la sua grandezza». Da bambino giocavi in attacco, ma segnavi? In Serie B intanto ci sei riuscito (Juve Stabia-Ascoli, ndr). «Ho giocato come attaccante fino a 15 anni, avevo anche una discreta media realizzativa. Il gol segnato contro l'Ascoli però c'entra poco con il mio passato: stavamo perdendo, così sono andato a saltare su un angolo a favore ed è andata bene». Direi proprio di si. Chi è stato il tuo primo idolo? «Il primo in assoluto fu Francesco Toldo. Mi innamorai di lui grazie agli Europei del 2000. Le sue parate contro l'Olanda le ricordo ancora oggi, compresi i rigori neutralizzati. Di quella partita avevo anche la videocassetta che ho praticamente consumato. Ogni volta che la guardavo, mi dicevo dentro di mettercela tutta per diventare come lui. È nata così la mia passione per il ruolo del portiere». Cosa ti sei regalato con il primo stipendio? «Non era una cifra così alta (ride, ndr). Presi un paio di sneakers che ricordo ancora oggi con piacere perché sognavo da tempo di poter comprare qualcosa senza chiedere i soldi ai miei genitori». C'è una maglia, tua o di un avversario, che conservi con più cura a casa? «Solitamente le mie le scambio al fischio finale con gli ex compagni di squadra che affronto. La maglia che invece non cederei per niente al mondo è quella di Buffon. Ho avuto il privilegio e l'onore di giocarci contro nel novembre 2020, era uno Spezia-Juventus. Qual è finora la tua partita perfetta? «Sinceramente non te lo saprei dire perché perfetto vuol dire non aver sbagliato praticamente nulla. Se però devo citarne una, dico Perugia-Pisa, in Serie C, del 13 ottobre 2013: fu il mio esordio tra i professionisti, vincemmo 0-1 in trasferta al Renato Curi. Ad oggi, è quella la mia partita». Se ti chiedessi invece il compagno di squadra più forte con cui hai giocato? «Piotr Zielinski. Mi impressionò fin dal primo giorno di settore giovanile con l'Udinese, era ancora minorenne ma non c'erano dubbi sulle sue qualità. Pensai: "Se non arriva in Serie A uno come lui, non ci arriva nessuno"». C'è una partita in cui ti tremavano le gambe prima di entrare in campo? «Frosinone-Empoli (3-3, ndr) per due motivi. Il primo, il più scontato: era il mio debutto in Serie A, giocavo con i toscani. II secondo invece era dovuta al fatto che tornavo in campo dopo quasi un anno dall'infortunio alla tibia. Aspettavo quel momento da una vita, fu una partita che soffri molto emotivamente. Poi ho preso il via e la tensione è sparita». Se potessi, con quale sportivo o VIP ti piacerebbe andare a cena? «Oddio, questa è difficilissima. Fammici pensare un attimo (passa almeno un minuto, ndr). Ok, ce l'ho: Novak Djokovic. Mi affascina molto la sua personalità in campo e fuori, c'è un motivo se è da anni il numero uno al mondo nel tennis. Come tutti però è un essere umano, per questo sarei curioso di parlare con una persona così forte e determinata». Qual è la più grande pazzia che ha fatto un tifoso per te? «A Sassuolo, prima di una partita con lo Spezia, trovai in stanza una busta con una lettera da parte di un ragazzo. Mi scrisse che ero il suo punto di riferimento, mi emozionai molto perché ripensai all'lvan bambino che sognava di fare il portiere mentre guardava Toldo contro l'Olanda». Cosa ti ha lasciato la scomparsa di tuo padre Venanzio? «È un'esperienza di vita che non auguro a nessuno. Sono episodi da cui, per forza di cose, impari tanto. Impari a conoscerti meglio e ad affrontare difficoltà che non hai mai vissuto prima. La sua scomparsa mi ha fatto crescere a livello personale per andare avanti, dandomi a volte anche una spinta in più in саmро» La morte spesso coincide con una nascita: cosa vuol dire essere padre? «Non so trovare le parole perché è un insegnamento che ti viene dentro da solo. Sicuramente vuol dire avere maggiori responsabilità, spostare il focus della tua vita su una persona che dipende esclusivamente da te. La nascita di Alexander mi ha fatto capire cosa conta realmente nella vita». Non solo calcio: se avessi più tempo libero, cosa ti piacerebbe fare? «Avendo un bambino di quasi due anni, al momento non ho molto tempo libero fuori dal campo. In passato ho suonato un po' la pianola ma con scarsi risultati. Quando Alexander si addormenta, ho giusto il tempo di guardare qualche serie su Netflix prima di andare al letto». Manca ancora tanto, ma hai già pensato a cosa farai quando non giocherai più? «Spero che manchi tanto perché questa vita mi piace molto. Ho pensato a diverse cose, senza impegno però perché mancano ancora tanti anni. Mi piacerebbe allenare o intraprendere un percorso da fisioterapista per essere d'aiuto agli sportivi e rimanere in questo meraviglioso mondo». «Devo dimostrare di poter far parte della Lazio»: una frase che hai detto durante la tua conferenza stampa di presentazione di agosto. A distanza di mesi, si può dire che ci sei riuscito? «Penso a quella frase tutti i giorni, lavoro duramente in ogni allenamento e partita per dimostrare di essere all'altezza della Lazio. Poi chi mi deve giudicare, dirà se sarò in grado di difendere questa porta anche per il futuro, cosa che mi auguro con tutto il cuore». Cosa diresti a un bambino che inizia a giocare a calcio? «Gli direi anzitutto di divertirsi e stare bene in compagnia dei suoi coetanei. Poi gli direi anche di non far diventare il calcio un'ossessione e di viverlo serenamente, senza tralasciare l'educazione e la scuola, sviluppando anche altri interessi. Divertimento e applicazione sono fondamentali in ogni campo».