In occasione delle sue duecento apparizioni con la maglia della Lazio, il difensore Gabarron Patric ha partecipato a un'intervista con Lazio Style Channel, ripercorrendo l'intero percorso della sua carriera. Ha raccontato gli inizi al Villarreal, il passaggio al Barcellona, e infine il suo trionfo con il club biancoceleste.
 

Torniamo al 2018, quando eri stato escluso dalla lista Uefa per l'Europa League. Se in quel momento ti avessero detto che avresti raggiunto quota 200 presenze con la Lazio e questo status nella squadra, ci avresti creduto?

"Non ti dico di no. Io sono una persona che nelle difficoltà si è sentita molto forte. Tutto quello che mi è successo, anche in negativo, è giusto che sia accaduto. Quando sono arrivato non ero pronto. Ero un bambino, non solo nel calcio, anche nella vita. Sono una persona molto sensibile. A volte quando si parla dei calciatori si fa riferimento solo a quello che si fa in campo, ma in realtà sono persone, ognuna con una personalità che cambia il proprio modo di stare in campo. Quando si gioca a calcio ci sono molti aspetti da considerare. In quel momento io non ero pronto e penso che l'aspetto che non mi ha fatto mai essere escluso è che ho sempre lavorato, ascoltando e imparando. Andavo sempre a duemila, sapevo di avere le qualità, ma anche che dovevo maturare sotto molti aspetti. Ci ho sempre creduto!".

Qual è la partita perfetta di queste 200 che hai giocato?

"Non ne ho una in particolare, vivo ogni emozione al massimo. Sono fatto così, quindi non quale scegliere. Mi piace vivere le partite. Poi è normale che a livello di importanza giocare la Champions è il sogno di tutti i grandi giocatori e le grandi società. Vivere una notte come quella contro il Bayern Monaco in un Olimpico pieno è speciale. Poi lo sono anche tutte le partite in casa, meno quelle in trasferta. Le vivo tutte come se fossero l'ultima". 
 

Sei arrivato a Roma nel 2015, c'era già nei tuoi pensieri quello di rimanere per tutto questo tempo? La Lazio te l'ha consigliata qualcuno prima di arrivare?

"Io conoscevo già la Lazio perché è una squadra storica, poi il calcio italiano mi è sempre piaciuto e sapevo di poter imparare tanto. Non pensavo di restare così tanti anni, ma credo che per crescere e maturare non potevo stare in un posto migliore. Forse restando in Spagna la mia carriera non sarebbe stata così buona. Venire in un posto dove non parlavo la lingua, dove mi sono chiuso con i miei genitori, dove pensavo solo a giocare a calcio ha fatto parte della mia crescita. Ho avuto modo di vivere la mentalità italiana, molto più duro rispetto alla Spagna, dove di solito sono più leggeri con i giovani. Penso che stare qui mi ha fatto bene per crescere e diventare un calciatore a certi livelli. Sono orgoglioso di essere qui, mi trovo molto bene". 
 

L'unica cosa rimasta di Patric nel 2015 è il tatuaggio sull'avambraccio...

"Ero un bambino. Mi piaceva divertirmi, cambiare, fare tutto. Fa parte dell'essere giovani, poi bisogna maturare. Si trova la migliore versione di un calciatore quando questo migliora anche fuori dal campo. Io sono sta bravo perché sono voluto crescere a tutti i costi, lottare anche per tanti mesi o anni al buio senza che nessuno lo vedesse, io ero l'unico a crederci e per questo devo ringraziare anche me stesso. Ho trovato una maturità diversa".

La tua prima esperienza all'estero è stata al Villarreal, com'è stata?

"Io nasco a Murcia, un piccolo paese dove non esistono calciatori, e vengo da una famiglia molto umile. Tutto gli agi delle grandi città sono lontani, lì si vive in campagna e in modo naturale. Quando arrivò l'offerta del Villarreal avevo dodici anni e dirlo ai miei genitori non fu facile visto che non capivano molto di calcio. Di recente ne parlavo con mia madre e lei mi ha detto che io arrivai a minacciarli dicendogli che non li avrei mai perdonati se non mi avessero mandato. Oggi mi rendo conto del sacrificio che hanno fatto, non era facile mandare un ragazzo così piccolo, mia madre è stata male un anno". 
 

La tua famiglia?

"Siamo molto legati, siamo pochi e stiamo spesso insieme. Ho anche una sorella con cui mi sento sempre". 

Il tuo nome è Patricio Gabarron Gil, perché hai scelto Patric e il numero 4? 

"Patricio era mio nonno, ma mi sembrava un nome troppo d'adulto. A scuola tutti mi chiamavano Patric, e allora questo è sempre rimasto questo. Nel calcio poi è pi corto e facile da pronunciare, ma sono orgoglioso di avere nome di mio nonno. Il numero 4? Mi è sempre piaciuto, anche per i miei idoli Sergio Ramos e Dani Alves".

C'è un centrale che guardi particolarmente oggi?

"Noi siamo sempre in campo, quindi non vediamo tanto calcio. Vedo le partite più belle, amo il calcio e la tattica, ma quando torno a casa cerco di staccare la spina, di differenziare. Ci sono giocatori forti in giro, ma non ce n'è uno che guardo particolarmente". 

Fisicamente non sei strutturato, eppure ti esalti marcando le punte molto fisiche. Qual è il segreto?

"A me piace sempre superarmi, giocare contro i giocatori forti e difficili da marcare. È il bello del calcio, quello di affrontare i migliori, sei motivato, vuoi dimostrare che puoi superarli, far vedere quanto vali a te stesso. È vero che non sono tanto alto, ho altre caratteristiche. Infatti, non nasco come difensore centrale. Sono bravo portare palla al piede, veloce ho una buona intensità. Compenso la mancanza di fisicità con altre caratteristiche". 

Tu nasci come mediano. Quanto sarebbe cambiata la tua carriera, anche in ottica Nazionale, scoprendo subito il tuo ruolo?

"Io dico sempre che le cose accadono per una ragione, non mi piace lamentarmi di ciò che non è accaduto prima. Se le cose non sono andate come speravamo forse è perché potevano andare anche peggio. Io sono fiero del mio percorso e orgoglioso di me stesso e di quel che ho fatto. Pensando a freddo, però, magari scoprendo il ruolo di centrale mi poteva aprire le porte per fare cose più grandi perché mi trovo bene là. Il mio percorso è stato difficile. Al Barcellona facevo il terzino, ma mi avevano spostato perché a centrocampo c'erano giocatori forti come Luis Alberto e Sergi Roberto. Il giocare terzino mi ha permesso di arrivare, altrimenti giocando in mezzo non avrei trovato spazio. Giocare terzino, quindi mi ha aiutato, non mi ha solo rallentato. Poi sono venuto alla Lazio per fare il terzino, ma con Inzaghi abbiamo iniziato a giocare a cinque e questo mi ha penalizzato, perché ho impiegato un anno e mezzo a trovare la mia posizione. Io non avevo la forza di dire dove mi trovavo meglio, mi sono adattato alle richieste del mister, ma sapevo di non poter fare il quinto. Un giorno, però, il mister mi ha detto di fare il terzo e lì sono cresciuto. Le cose succedono sempre per un motivo". 
 

Che ricordi hai del tuo debutto in Champions al posto di Puyol?

"Una notte che porterò per sempre con me. Sapevo che avrei potuto esordire perché c'era Dani Alves infortunato ed era da qualche partita che venivo convocato. Quella sera, poi, ero l'unico a disposizione per quel ruolo e avevamo un infortunato in più".

Il rapporto con Messi?

"Messi con me si è sempre comportato benissimo, così come Mascherano. C'erano sempre per darmi qualche consiglio, mi hanno sempre trattato bene, poi non era uno rapporto strettissimo. Il mio agente, però, è molto legato a lui. Allenarsi con lui? Messi è il numero uno, a volte non ti sembra umano". 
 

Chi sarà il futuro del calcio?

"Ce ne sono tanti: Mbappe, Halaand e Bellingham. Il francese però è avanti agli altri".

Come spiegheresti la Lazio? Ti senti di incarnare la lazialità?


“Lo avevo sentito tanto nei primi anni. Anche se non giocavo, anche se venivo criticato, capivo la situazione e l’ambiente Lazio mi entrava dentro. È come una famiglia. In certi momenti ti emozioni da solo senza pensarlo, significa che c’è qualcosa che ti è entrato dentro. La Lazio la porterò con me sempre, è la mia squadra del cuore. Ha qualcosa di speciale. Chi passa tanti anni qua si rende conto che non ne puoi fare a meno. Te la ricorderai per sempre. Ti entrano dentro i tifosi e la maglia. La gente muore per andare allo stadio a vedere la Lazio che vince. Sono valori che abbiamo da sempre e che ti fanno amare la maglia”.

Come ti piacerebbe essere ricordato?


“Il più bello nella vita è essere esempio per quelli che vengono. I calciatori vanno e vengono. Mi piace che i genitori possano raccontare la mia storia ai propri figli, che devono lottare per i propri sogni. Prendermi come esempio è la cosa più bella che possa ricevere. Sono sempre stato un lottatore e mi piacerebbe esser ricordato come un esempio di crescita per i bambini”.

Un calciatore che ti ha un po’ deluso in campo?
 

“Come qualità in allenamento da 9 anni che sono qua, come Ravel Morrison non c’era nessun altro. Il problema è che il calcio non è solo talento. A volte non è neanche colpa solo del calciatore, ma dell’ambiente che hai intorno. Al campo vieni un’ora e mezza, le altre 22 ore e mezza le passi con la famiglia e chi ti sta intorno. Per lui era questo il problema, ma in allenamento aveva una qualità superiore. Con questo talento era al livello di a Luis Alberto, forse anche di più negli spazi stretti. Faceva cose incredibili, però la differenza la fa la testa, il voler pedalare e questo a lui lo ha penalizzato tanto”.

Un calciatore che hai notato subito fosse un fenomeno?


“Sergej. Quando è arrivato i primi mesi si vedeva una superiorità fisica e tecnica. Era difficile vedere un giocatore così alto che esprimesse questa qualità palla al piede. Se metti le due cose insieme sapevo che era un giocatore speciale per la Lazio. Si vedeva da lontano”.

Fuori dal campo. Sei in pace con il mondo e con te stesso?

“Parlo tanto con la mia famiglia. La cosa più importante per trovare la tua miglior versione non solo nel calcio è stare bene con te stesso. Per trovare questo momento qua, dobbiamo passare delle cose diverse e non possiamo giudicare gli altri. Mi devo godere il mio momento e la mia storia, me lo sono meritato e sono tranquillo, fiero di me stesso, felice di stare qua. Non devi mai abbassare la guardia ed avere la consapevolezza che la vita non è sempre uguale. A volte succedono cose che ti possono cambiare, ma devi restare umile. Sono una persona molto più matura, so gestire le emozioni positive e negative e questo mi fa stare tranquillo e sereno”.

Depressione e salute mentale. Se ne parla meno di quanto si dovrebbe?

“Si, senza dubbio. Ci sono tante situazioni ma anche partite in cui non vedevo il pallone. A volte sono stato troppo buono. Il fatto di non dire che stavo male per non deludere e per fare felici gli altri e non me. Erano tutti infortunati, dovevo giocare io per forza e per me non giocare era deludere. Mi dicevo ‘come faccio a non giocare solo perché sto male’. Era troppo facile rinunciare. In quello momento non stavo bene, ma affrontare quel momento mi ha fatto diventare quello che sono. Non affrontare questa paura fare la cosa più facile, ovvero rinunciare a giocare, non mi avrebbe reso così maturo. Ricordo una partita con il Sassuolo in casa, con il Bruges in Belgio, non vedevo il pallone e non stavo bene. Non capivo perché. Stoppavo il pallone e la passavo al compagno più vicino. Alla fine ho superato tutto. La salute mentale è tutto. Sin da quando sono bambino penso che l’importante sia godersi la vita ed essere felice. Quando cresci ti rendi conto che la vita è piena di difficoltà e quando meno te lo aspetti arrivano”.

Qualcuno in squadra sapeva del tuo periodo difficile?

“Si, l’avevo accennato un po’. Per esempio mi venivano gli attacchi di panico negli aerei quando viaggiavamo. A volte qualcuno rideva, ma io volevo fare il forte, che non mi succedeva niente. Alla fine è stata una cosa molto grave e me la sono tenuta sempre per me. Questo è stato un errore perché bisogna chiedere aiuto prima. L’ultima cosa che volevo era giocare a pallone. Se non ti senti bene non puoi fare un lavoro come il nostro. Devi essere tranquillo e sereno con te stesso. Mi svegliavo la mattina senza la voglia di fare niente, avevo perso il senso di vivere. Mi chiedevo perché dovessi andare a lavorare. Sono sempre stato un po’ ipocondriaco. Il fatto di vedere in tv la gente che stava morendo per covid e io stavo da solo, mi faceva fare mille domande e mi ha fatto andare in crisi”.

Se il Covid non avesse fermato il campionato nel 2019/20…

“Non so se avremmo vinto lo scudetto, ma ci saremmo andati vicino fino all’ultimo. Ne sono sicuro. Le sensazioni che avevo l’ultima in casa con il Bologna con 70 mila persone allo stadio, vincevamo le partite dopo 20 minuti. L’energia che avevo non l’ho mai avuta in tutta la carriera. Mi stavo giocando tutto, per la prima volta mi sentivo un pezzo importante, vincevano sempre e si parlava in Europa in tutti noi. Ritrovarsi chiuso a casa poco dopo è stato difficile. Mi ripetevo di tenere botta e mi ammazzavo di allenamenti a casa. Ma non vedevo l’uscita e non ho saputo gestire questa situazione, era la prima volta che mi succedeva. Ce lo saremmo giocato fino alla fine, sono sicuro”.

Cagliari-Lazio è la partita più pazza della tua carriera?

“Sicuramente. Ce ne sono state anche altre ma quella è stata una pazzia”.

La tua passione per il canto è un progetto per il futuro…

“Mi piace la musica perché è sempre stata molto presente a casa mia. Mia madre, mia sorella e miei nonni hanno suonato qualche strumento e hanno contato. Non l’ho mai presa sul serio perché ho sempre avuto chiaro che volevo fare il calciatore. La mia umile idea è che se fai il calciatore devi lasciare perdere il canto. O fai una cosa o l’altra, ma rispetto quelli che lo fanno, ma non penso a diventare cantante in futuro. È un hobby che mi piace e basta”.

Che rapporto hai con Roma?

“È come la Lazio. Ti entra nel cuore. Mi piace nelle giornate più tranquille nelle strade vuote prima di andare a dormire, fare una passeggiata con la mia ragazza. Vedere Roma è bello, i suoi monumenti. Camminare per Roma è speciale, una delle città più visitate al mondo”.

La parola in romano che senti di più?

“Ao (ride, ndr)”.

In cosa ti sei italianizzato?
 

“Nel cibo. Difendo molto la Spagna come è normale, ma l’Italia sul cibo non ha rivali. È devastante come si mangia qua”.

Sei migliorato in cucina?


No”.

Piatto preferito?

"Tutto. Non so dirti perché non ce n’è uno che mi piace. Noi in Spagna usiamo molte più salse, voi lasciate che il cibo parli per se stesso. Mi sono affezionato a questo, mi piace mangiare in ogni osteria in centro, è tutto buono”.

A fine carriera tornerai a vivere in Spagna? 


“Ancora non lo so. Ho comprato casa qua, mi sento uno di voi. Non ho deciso, manca qualche anno. Penso che bisogna stare vicino ai propri genitori. Quando saranno più grandi dovrò stare con loro come hanno fatto loro con me. Finché ci saranno sarò sempre al loro fianco, vogliono godermeli il più possibile”.

Vacanza ideale?


“Al mare. Però non tutto il tempo sotto al sole, sono troppo bianco e divento rosso come un gambero”.

Hai trasformato i fischi in applausi. Qual è l’insegnamento che ti piacerebbe tramandare? 


“Le situazioni di difficoltà ti rendono più forte. Se te la prendi con gli altri non c’è niente da fare, è solo un cercare scuse. Nella tua anima senti questo, devi far vedere chi sei. La gioia più grande è dimostrare a te stesso il fatto che puoi cambiare la situazione. È bello che la gente se ne renda conto e che ti dica che è fiera di te e della tua storia. Questo mi rende orgoglioso. Sono stato criticato, ma non sono mai sceso in campo con paura. Prendiamo tanti soldi, è giusto che veniamo giudicati dai tifosi. A volte passi momenti negativi, tutti i giocatori lo hanno fatto. La differenza tra un giocatore forte e uno meno sta nella volontà di affrontare queste difficoltà”.

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