Irrati: "L'impatto del VAR è stato forte. Una volta in un Roma-Lazio..."
Intervenuto ai microfoni de La Repubblica, l'arbitro Massimiliano Irrati si è raccontato parlando della sua carriera, del Var, svelando anche alcuni aneddoti del mestiere. Queste le sue parole: "L'emozione più grande della mia carriera è comune a tutti gli altri arbitri: la prima partita in Serie A. Io ho iniziato a fare l'arbitro nel 1995, ho esordito in A nel 2012, 17 anni dopo. Inizi sempre sognando la Serie A, ma è un percorso lunghissimo. Poi arriva quel momento, la telefonata del mercoledì mattina del segretario che ti designa. E cambia tutto. Era un Bologna-Chievo, 18 marzo 2012, finì 2-2. E non fu complicata, per fortuna. Lì metti la prima bandierina, dici: la Serie A l'ho fatta. La designazione? Il problema più grande è gestire l'emozione. Hai tensione. Hai paura. Ricevi le telefonate di complimenti degli amici, degli arbitri più giovani. Dici a tutti grazie, grazie, però poi sai che devi fare la partita, perché è la prima ma può essere anche l'ultima. Quando smetti di essere tifoso? Da bambino pensavo che avrei smesso quando, in Serie A, avrei iniziato ad arbitrare la squadra del cuore. In realtà smetti molto prima. Quando inizi ad arbitrare scatta qualcosa, guardi le partite della tua squadra seguendo più l'arbitro che i calciatori: quelli segnano ma tu guardi altro, nemmeno esulti più. Arrivarci da calciatore? Ho iniziato a giocare a calcio a sei anni: ero difensore. Scarso, perché se fossi stato bravo avrei fatto quello. Ma aver giocato è fondamentale per arbitrare". "All'inizio al Var eravamo pochi, ora la concorrenza è aumentata. Ma l'etichetta me la sono presa ormai, finché dura la tengo. Ero a mio agio fin da subito, dal 2017. Rizzoli, che ci dirigeva, e Rosetti mi identificarono tra i migliori in Italia quando fecero una selezione per il Mondiale in Russia. L'assenza dell'Italia e il fatto che in molte nazioni non fosse stato ancora introdotto il Var mi spianarono la strada. Feci 17 partite, comprese la partita inaugurale e la finale. Fu l'inizio di tutto. Noi rappresentanti dell'Italia in Qatar? Non credo che ora la gente si riunirà per guardare Orsato in campo e Irrati al Var, a parte amici e familiari. Però mi sarebbe piaciuto vivere questa esperienza con i calciatori della Nazionale". "In un Roma-Lazio semifinale di Coppa Italia. Totti entra dalla panchina con la Lazio in vantaggio 2-0 a 15 minuti dalla fine, mi si avvicina e battendomi la mano sulla spalla mi dice "bravo". Stava perdendo 2-0, pensavo mi prendesse in giro. Lo guardo come a dire, "Ma che bisogno hai?". Lui forse capisce e mi fa, serio: "No no, bravo davvero". Ecco. Se arbitri bene, anche chi perde lo capisce. E un apprezzamento così, da un campione esperto, che poteva fregarsene, mi fece effetto. Il rapporto in campo coi calciatori? Dipende. Se sei sincero e leale, magari ammetti un errore e non ti nascondi dietro la divisa, i giocatori lo apprezzano". "All'inizio ci sono state resistenze al VAR, sì. L'impatto è stato molto forte. La prima volta che venne Rosetti a Coverciano a parlarci del Var la ricordo bene: aveva partecipato a un seminario ad Amsterdam su questa idea. Sarà stato forse il 2015. Lo guardammo come a dire "questo è pazzo". Non riuscivamo a capire: per noi era la moviola di Biscardi, ci sembrava quasi una provocazione. Invece aveva capito per primo quale fosse il futuro. Noi "anziani" dobbiamo insegnare ai giovani, che vengono dalla C, dove il Var non esiste, che non c'è nulla di scabroso ad andare al monitor. Anzi, ti fa andare a dormire tranquillo, perché magari hai sbagliato e ti sana un errore. Come ha cambiato il nsotro atteggiamento? Da ragazzino ti insegnano: prendi la decisione e cancella tutto. Se anche ti sembra di aver sbagliato, da qualche reazione, dimentica e volta pagina, sennò fai dieci errori a partita. Improvvisamente, diventava il contrario: appena hai deciso, apri la mente a un possibile errore perché magari arriva un aiuto e puoi rimediare". "Per me, un bravo arbitro è felice se non incide sulla partita. Se nessuno si ricorda di lui. Ancora meglio se sul giornale sbagliano il nome, vuol dire che non sei stato importante. Serve autostima? Sì. In campo c'è rispetto, ma anche tanto agonismo: devi avere l'autostima per stare a petto in fuori anche nella bufera. Ma senza essere protagonista. Pensare o scrivere che ha preso una decisione per favorire una delle due squadre. L'accusa di malafede. O come diceva qualcuno la sudditanza psicologica. Anche solo insinuarlo è l'insulto peggiore. A volte, raramente, te lo dice un giocatore in campo: "Questo a loro non lo avresti fischiato". E lì da una parte ti crolla il mondo addosso. Dall'altra ti chiedi: ma cosa ho fatto per fargli venire un pensiero così?"