Il Messaggero | La Lazio aspetta Felipe e i suoi big
C'è sempre una sliding door nella trama di un racconto. Se Felipe avesse segnato nel vivissimo primo tempo di San Siro, forse oggi parleremmo della crisi superata dalla Lazio in campionato. Invece, siamo a sette punti e a capo. Con un terribile sedicesimo posto (a +4 dal terzultimo), con i nervi tesi fra Sarri e Lotito, e la delicata sfida di Champions a Glasgow fra un giorno, prima dell'Atalanta all'Olimpico. Il patron è arrabbiato, ma ha voluto esprimere le sue idee con un tono abbastanza costruttivo e diplomatico: «Siamo una grande squadra e lo abbiamo dimostrato anche nel primo tempo a Milano. Purtroppo episodi sfortunati ci stanno remando contro e, per uscire da questo momento, serve uno spirito coeso, anche da parte del tecnico».
FIDUCIA - Lotito non lo ha messo in discussione né con le spalle al muro: non a caso, gli è stato proposto il cambio con Igor Tudor (libero) e lui ha detto no. Avanti con Sarri, perché c'è ancora fiducia che tutto possa cambiare presto con una squadra comunque in progresso: «Nulla è perso». Un dato può strappare un sorriso alla Lazio, ma farla arrabbiare ancora di più sul calendario.
UN PUNTO IN PIÙ - In sei delle sette partite sinora disputate (eccezion fatta per il Genoa, neopromossa) i biancocelesti avevano addirittura racimolato un punto in meno (6) l'anno scorso: Lazio-Monza (1-0) del 23 settembre, Juventus-Lazio (3-0) del 10 novembre, Lecce-Lazio (2-1) del 4 gennaio, Napoli-Lazio (0-1) del 3 marzo, Lazio-Torino (0-1) del 22 aprile e Milan-Lazio (2-0) del 6 maggio. Certo, i 4 ko in sette giornate fanno paura, ma ha ragione Sarri su questo: «La classifica non va guardata adesso, dobbiamo ritrovare le nostre certezze piano piano». Questo si sposa con il concetto di Lotito: «Il mercato non c'entra nulla con quello che sta succedendo». Perché in effetti è la "vecchia guardia" ad essere venuta meno. Discorso diverso sarebbe se Mau avesse chiesto un certo tipo di rinforzi pronti all'uso (Milik, Berardi, Zielinski e Ricci) proprio perché aveva già intuito a fine maggio una crisi di appagamento da secondo posto. Ad Auronzo il tecnico sembrava però quasi commosso dalla determinazione del suo gruppo, tanto da legare a una sorta di riconoscenza allo spogliatoio la sua permanenza alla Lazio, nonostante la campagna estiva non l'avesse soddisfatto. Sarri vede ancora la squadra unita al suo fianco, ieri l'ha spronata insieme al ds Fabiani in un confronto alla ripresa a Formello, ma è evidente il crollo psico-fisico dei senatori sul campo. Per esempio, cosa sta succedendo proprio all'insostituibile (ora è 106 gare di seguito) Felipe Anderson? Dodici reti l'anno scorso, oggi ancora zero tiri nello specchio, 4 in totale in sette giornate, di cui l'ultimo sinistro sballato a San Siro. Il brasiliano è a digiuno dal 3 maggio con il Sassuolo, ma ha sfornato 3 assist che, non è un caso, coincidono con le uniche due vittorie biancocelesti contro Napoli e Torino.
CRISI DI APPAGAMENTO - Pensate quanto possa dipendere questa Lazio dai guizzi di Felipe Anderson. Si è svegliato a singhiozzo in questo avvio, magari c'entra il rinnovo. Dopo le magie del Maradona, Lotito era stato chiaro: «Per me è un figlio ed è una stupidaggine che la Lazio voglia mandarlo a scadenza di contratto fra un anno». E infatti una settimana dopo, il presidente aveva incontrato l'entourage a Formello per chiudere l'accordo a 2,8 milioni, ma ancora manca l'annuncio. Felipe doveva essere il primo di una serie di big (in fila Zaccagni, Immobile, Romagnoli, Casale e Provedel) a firmare il prolungamento. Su questo Sarri era stato chiaro a giugno, la grana rinnovi andava risolta subito, non solo con Pedro e Luis Alberto: ieri l'ufficialità del quadriennale (con opzione sino al 2028) firmato ad agosto da un Mago, guarda caso mai così combattivo. Forse è un fattore marginale in questo momento, ma va analizzato tutto nel dettaglio, finché si è in tempo. Domani si capirà anche se tanti nuovi stimoli torneranno in Champions. Anderson non si è acceso al debutto con l'Atletico, vuole tornare Felipe a Glasgow. Il Messaggero/Alberto Abbate