Il Messaggero | Maestrelli, il figlio Massimo: “La sua Lazio è eterna. E da lassù guarda Sarri”
La sua leggenda è una favola dannata: “La tragedia ha portato quella Lazio ancora più in alto, l’ha resa eterna”, assicura Massimo Maestrelli, figlio del Maestro Tommaso, che oggi avrebbe compiuto un secolo di vita. Stamattina nella tomba di famiglia a Prima Porta verrà inaugurata una panchina, sospesa, con la scritta “100”, azzurra. E tutti i nomi incisi di quella banda che ancora risuonano, 46 anni dopo la sua prematura scomparsa. Gli sfregi del tempo non l’hanno avuta vinta, quello scudetto del 1974 è ancora sinfonia che riecheggia nell’aria: “E in questo anniversario vi dico: la mia vita è stata legata solo a segni del destino. Credo che Sarri possa fare qualcosa di eccezionale e inaspettato a fine campionato, proprio perché coincide con questa ricorrenza”. E allora Massimo sventola la bandiera, come fosse ancora il gemellino-mascotte di casa, sotto la Sud, ufficialmente Maestrelli da domenica scorsa. “Non volevo più smettere, è stata un’emozione unica. E mi diverte pure che sia stata vista con un sacrilegio sull’altra sponda”.
Oggi è un giorno dolce e amaro.
“Per me è solo bello perché, a parte l’aspetto terreno, io non ho mai avuto la sensazione che papà se ne sia andato. In questi anni c’è sempre stato, ogni giorno. Due settimane fa a Tor di Quinto si è tenuto un memorial per Wilson, sono stato bruscamente ripreso da un carabiniere perché avevo parcheggiato dentro il motorino. Dopo, appena ho fornito il documento, si è mortificato: “Io le devo chiedere scusa, questa è casa sua”. Io mi sono quasi vergognato, ma poi ho sorriso. Da quasi 50 anni, in questi episodi, mio padre è vivo”.
Tutti ancora lo venerano e non c’è mai un ricordo fuori posto.
“Ha messo d’accordo un Paese intero. Svuotando casa di mia sorella ho trovato i telegrammi del presidente Fraizzoli: “Inspiegabile la retrocessione del Foggia che gioca il calcio più bello d’Italia, la mia stima rimane immutata nei suoi confronti”. E uno bellissimo di Berlinguer, che non pensavo mai si potesse occupare di calcio. È un mito che va oltre il pallone, che di solito cancella tutto, mangia un allenatore dietro l’altro, calpesta carriere di giocatori perché ha sempre bisogno di storie nuove. Quella di Maestrelli interessa ancora oggi, Lotito ha fatto di tutto per ricordarlo”.
Eppure Tommaso buono, pacato, sembrava un anti-personaggio.
“Sì, forse oggi, in cui tutto è polemica e arroganza, sarebbe una figura anacronistica. Eppure la gente racconta ancora le sue gesta e quelle della sua banda, molto di più delle altre favole di Cagliari e Verona. I drammi della Lazio hanno accolto tanta benevolenza. Parliamoci chiaro, fossero stati ancora tutti in vita, forse non ci sarebbe stata la stessa gloria”.
In qualche modo ne parla come se fosse scritta.
“Muore papà, muore Cecco; muore mia sorella, muore Lovati; muore mio fratello Maurizio, poi Giorgio, poi Wilson. A tutte le morti della mia famiglia sono seguite morti di suoi giocatori. È ovvio che io lo veda come un disegno del Fato. Nel dolore doppio c’è qualcosa di divino. E questo mi fa sperare che ci sia davvero qualcosa di bello quando guardo il cielo”.
E cosa vedeva invece quando ammirava papà da bambino?
“Portò me e Maurizio per la prima volta in campo a due anni a Reggio Calabria, gli anni delle promozioni, sino alla A mancata per un punto dopo lo 0-0 col Mantova. Non c’era la cultura di adesso, mamma era contraria perché allora nello spogliatoio non entrava nessuno a parte gli addetti ai lavori. Portando i suoi figli, Maestrelli ruppe quella sacralità, tutti ci rispettavano e coccolavano come facessimo parte dello staff. Mi ricordo ancora quando Wilson ci regalò degli scarpini rossi e bianchi e celesti e gialli, che l’Adidas aveva fatto solo per lui... Noi però a quel tempo non ci rendevamo conto dei campioni con cui avevamo a che fare, ci comportavamo come se babbo andasse ad allenare una squadra di Eccellenza. Solo oggi mi rendo conto di aver vissuto un’esperienza e una Lazio unica”.
È vero che Tommaso faceva da paciere in uno spogliatoio che spesso litigava?
“Assolutamente sì, io e Maurizio eravamo il 17esimo e il 18esimo giocatore, non ci veniva risparmiato nulla. La banda del ‘74 si detestava, Martini non accettava Chinaglia. Dentro quella squadra c’era una miscela esplosiva e solo papà riusciva a controllarla. Aveva trovato la chiave per entrare in personalità completamente diverse, solo lui sapeva cosa dire e come prendere ogni loro debolezza. Per lui erano tutti importanti, ma inutile nasconderlo, provava qualcosa di più per Chinaglia. Giorgio era il figlio grande che giocava a calcio, con un carattere complicato su cui perderci tempo, e che senza di lui era perso, anche perché da piccolo aveva avuto una profonda carenza affettiva. Fra loro due c’era una necessità epidermica, si guardavano negli occhi come fidanzati, erano innamorati e si appoggiavano ogni volta”.
Negli anni della malattia come ha gestito quella squadra?
“La notizia del cancro fu uno choc, tutti si sentivano immortali in quel frangente di vita. La Lazio era venuta dalla B, dal nulla, dopo anni in cui la Roma vinceva, e aveva compiuto un’impresa pazzesca. Nessuno poteva mai pensare alla morte mentre volava a 300 chilometri orari ad alta quota. La malattia di papà fu un dramma, basti vedere il ko per 5-1 con il Torino in casa. E creò ulteriori pericolose aspettative la ripresa perché tutti pensarono che Tommaso fosse guarito, ma i medici lo avevano avvertito che le cellule maligne si sarebbero più facilmente riformate con lo stress e la tensione in panchina”.
Chinaglia se ne era già andato.
"Babbo non fece nulla, non gli disse una parola per fermarlo e Giorgio rimase spiazzato. Tommaso aveva capito che non ce la faceva più, doveva tornare a casa, il suo percorso a Roma era finito anche se poteva aspettare la fine del campionato. Se la Lazio fosse andata in B e non si fosse salvata all’ultima giornata contro il Como, Giorgio non se lo sarebbe mai più perdonato. Tutti gli altri giocatori comunque iniziarono a guardarlo come quello che aveva mollato la baracca quando stava andando giù, aveva tradito".
È rimasto nel cuore di Tommaso, Chinaglia oggi sarà al suo fianco in panchina.
“Ci pensavo da due anni, con un artista famoso abbiamo deciso di realizzare una panchina a forma ellittica che posa su due basi di metallo leggere, quasi sospesa, e ho fatto inserire la formazione della squadra e il 100 in azzurro chiaro, ovvero i suoi anni”.
Sarri è sbarcato a Roma e lo ha subito citato: può ripercorrere davvero le orme del Maestro?
“Sono stato a cena con lui insieme a mia moglie 4 anni fa. Passammo una serata bellissima. Tutti lo descrivono come uno burbero, si presentò in giacca e cravatta con un vestito grigio, ci sorprese con la sua cultura. Per un figlio è stata una gioia sentirlo poi parlare di papà come persona, appena sbarcato in panchina. Lui come babbo, difende sempre la squadra, fa da schermo quando qualcuno fa una pressione sbagliata. Guai a toccargli la Lazio, come papà. Quest’anno il campionato della Lazio può portare a qualcosa di eccezionale ed inaspettato, io credo in un miracolo dell’ultima giornata. Vedo Sarri mettere qualcosa di bello, bello e bello in bacheca, dedicare l’1% a papà, il resto a un’altra eternità”.
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