La Repubblica | Lazio, un’estate balorda: la crescita zero e la paura di migliorarsi
È come se sulla Lazio fosse calato il velo nero dell’impossibilità, quel sipario scuro che toglie luce all’entusiasmo dell’ambizione, che mette un limite, che alza un muro tra i sognatori e i realisti. «Sono preoccupato, serve qualcosa di straordinario per migliorare l’anno scorso», diceva Immobile a caldo dopo il ko di Lecce.
È come se la Lazio avesse maturato la consapevolezza inconscia di non poter andare oltre al secondo posto, che poi è un pensiero legittimo anche a livello razionale: migliorarsi significherebbe vincere lo scudetto e la Lazio non è attrezzata per farlo. Ma è come se questo vieto al progresso avesse ricacciato i biancocelesti indietro di più posizioni, togliendo loro dalla testa la considerazione che migliorarsi può anche voler dire confermarsi tra le prime quattro. Forse la Lazio ha posto male la domanda da fare a sé stessa e ha sbagliato risposta, perdendosi in una partita concettualmente sbagliata, nella quale ha reso superiore una squadra che le era inferiore. Migliorarsi significa anche evitare che questo accada.
Il disagio visto al Via del Mare è parso una conseguenza di un’estate balorda, con i giorni scanditi dai silenzi nervosi di Sarri, dai ritardi del tuttofare Lotito, dalle perplessità dei tifosi, dai tormenti per la partenza del giocatore più decisivo. Dal punto di vista mentale, insomma, il primo mese e mezzo di lavoro è stato un disastro e la squadra è arrivata con la testa sbagliata al debutto.
Per capire ancora meglio il quadro psicologico dell’agosto laziale tornano utili altre parole di Sarri, durissimo verso la squadra dopo Lecce, a cui è stato chiesto se durante l’estate abbia mai pensato di dimettersi, visto che i rinforzi richiesti (e necessari) tardavano ad arrivare e su molti non c’è stata concordanza con Lotito. «Se avessi voluto fare il furbetto me ne sarei andato dopo Empoli, tanto lo sapevo che meglio non si poteva fare»: rieccolo, il velo dell’impossibilità, quell’eccesso di realismo che sta impedendo alla squadra di recuperare la spavalda leggerezza con la quale ha confezionato l’esaltante stagione passata, ora giudicata così miracolosa da risultare irripetibile. «Sono rimasto», ha spiegato Sarri, «perché sto bene a Roma e ancora meglio alla Lazio e mi sento responsabile nei confronti dei tifosi. Quando ho deciso di rimanere l’ho fatto senza tentennamenti, ben sapendo a cosa saremmo andati incontro». Sarri non vende fumo ed è un gran pregio, ma forse stavolta ha esagerato, lasciando che il realismo sconfinasse nel vittimismo. «Non cresciamo mai» è sbottato a Lecce: frase sacrosanta, ma lui e i giocatori sono così convinti di saperlo e poterlo fare o si sono ficcati in testa ben altri pensieri? La Repubblica/Emanuele Gamba