Ieri ci ha lasciati Vincenzo D’Amico, altro pezzo di storia della Lazio. Protagonista dello scudetto del 1974 e poi capitano. Era un uomo libero, prigioniero solo di una fede: quella per la Lazio. “Lui stesso diceva che da bambino era tifoso Juventino. Poi, citando Felice Pulici, la Lazio l’ha scelto e gli è entrato dentro” ha detto il suo amico ed ex compagno proprio nell’anno dello scudetto Giancarlo Oddi.

Un altro di quella "maledetta" banda del 74 che se va.

“Era il piccoletto dei nostri, quasi una mascotte o un fratello minore. Purtroppo ha sofferto molto, non se lo meritava. Ho passa to gli ultimi due giorni al Gemelli, gli sono stato vicino”.

Aveva confessato il tumore dopo la morte di Pino Pino Wilson.

Vincenzo aveva un grande cuore, era rimasto scosso, ma era malato da diverso tempo. Non diceva nulla solo perché non voleva essere compatito. Dava coraggio agli altri come sempre”.

Allora, come ha affrontato davvero la malattia?

“Sdrammatizzando tutto. Da Madeira mi faceva battute al te lefono persino sul cancro, era un giocherellone nato. È morto giovane, ma era già un giovane eterno”.

Un'altra bandiera ammainata di quella squadra dello scudetto di cui avevate festeggiato i 40 anni nel 2014 all'Olimpico con "Di padre in figlio".

Quel giorno era felicissimo, Mi ricordo che lo sfottevamo perché aveva messo su un po' di chili e lui rispondeva: ‘Perché ho smesso di fumare’. Ma io me lo ricordo a tavola davanti a qualunque piatto”.

Era talmente genuino da far passare in secondo piano il suo genio?

“Impossibile, era fortissimo, un fenomeno, aveva una tecnica e una classe che non aveva nessun altro di noi. Poi la sua carriera lo ha dimostrato”.

Come mai non fece mai una presenza con Bearzot in Nazio-nale?

“Sarebbe dovuto essere uno del capisaldi in azzurro. Invece, la sua simpatia a qualcuno andava di traverso, anche se lui era bravo, buono e non voleva dare fastidio a nessuno, ma soltanto portare allegria ed entusiasmo in un gruppo”.

Eppure Chinaglia gli rifilo un calcione per un sorriso di troppo.

“Si, ma Giorgio era così con tutti, però gli voleva un gran bene”.

Negli anni a venire Vincenzino diventò il capitano.

“No, diventò la Lazio. Era il più importante di tutti, salvò il club da diverse situazioni, impossibile dimenticare la tripletta in quel Lazio-Varese 3-2 che evitò la serieC, nel 1982”.

Insomma, tutto il calcio perde un altro mito.

Forse esagero, ma se fosse stato meno mattacchione e più ambizioso, avrebbe potuto persino vincere il Pallone d'oro. Ma lui preferiva godersi la vita oltre il calcio, giocare con tutto, alla fine anche con la morte”.

Il Messaggero

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