Stefano Re Cecconi, figlio di Luciano, storico centrocampista della Lazio vincitrice dello scudetto del 1974, ha rilasciato un'intervista a La Repubblica parlando del padre e del mistero che aleggi attorno alla sua morte. 

Qui di seguito le sue parole: 

Non ho nessuna memoria, niente. Solo piccole sensazioni, ma forse è la voglia di ricordare e di farmele provare. 

Il primo sfogo circa la storia che aleggia sulla morte del padre: 

Era diventato campione partendo dal lavoro nella carrozzeria: quindici chilometri ad andare e altri quindici a tornare per allenarsi con la Pro Patria. Quanti sacrifici, altro che un giocatore viziato. Vorrei gridarli ai quattro venti chi è stato veramente mio padre. Quando la gente mi chiede se sono parente del giocatore dico di no solo per non parlare di come è morto. E anche mamma sta sulle spine quando lo nominano. Il loro matrimonio è durato poco, erano giovanissimi, ma lei non si è risposata per portare avanti il disegno della vita che aveva immaginato insieme a lui, a me e mia sorella. 

Su come ha ricostruito la figura del padre: 

Mio zio Piero ha riempito un album con ritagli di giornale e fotografie. Poi i racconti di giocatori di quella squadra come Martini e Oddi, o i figli di Maestrelli, Wilson, Chinaglia e gli altri. È come una seconda famiglia allargata. E zio Vincenzo.. Lui e papà erano diventati grandi amici in una stanza di ospedale peri rispettivi infortuni. Dalla morte di papà e fino alla sua, zio è stato sempre vicinissimo alla mia famiglia, il secondo nome del figlio è Luciano. 

Sull'amicizia di Re Cecconi con Riva:

Me lo ha raccontato mamma. Legnano, la città di Riva, è vicina a Nerviano e con la Pro Patria è ancora un derby molto sentito. Quando Riva era in clinica a Roma dopo un infortunio, papà lo andava a trovare ogni giorno.

Che giocatore era? 

Era generoso. Leale con tutti, specialmente con Maestrelli che lo aveva allenato anche al Foggia. Era così attaccato a lui e alla Lazio che, un giorno, si precipitò in macchina con il fratello a Milan per evitare che il presidente Lenzini lo vendesse al Milan: Buticchi aveva messo sul tavolo un assegno in bianco. 

E che uomo…? 

Tra le tante cose che mi hanno raccontato di lui, c'era la grande passione per i bambini: da Lenzini si era fatto promettere che, finita la carriera, avrebbe allenato le giovanili. Nelle immagini del gol storico al Milan, appena segna corre ad abbracciare i raccattapalle. 

Poi torna sul discorso della morte nella gioielleria:

La bottega era piccola e c'erano due bambini, papà non avrebbe mai messo a rischio la loro vita. Penso ad un colpo partito inavvertitamente, è successo tutto troppo in fretta. In quegli anni c'era la lobby dei gioiellieri che spingeva per difendere la categoria esposta alle rapine, e credo che sulla scia dell'opinione pubblica si sia preferito chiudere lì la storia. Penso anche che se papà avesse giocato in una squadra del Nord, sarebbe stato più tutelato. 

Su Ghedin, che era presente con lui quel giorno: 

Mi è capitato di incontrarlo nel 2002 alla Pinetina durante un ritiro della Nazionale, quando era il vice di Trapattoni. Gli dissi chi ero, lui mi trattò in modo sfuggente, chiedendomi se volevo i biglietti della partita. Persino Trapattoni fu più espansivo. L'amico che mi aveva accompagnato, e che non sapeva chi fosse Ghedin, mi chiese cosa avessi fatto di male a quell'uomo.

Conclude…

Ogni domenica vado al cimitero, guardo la sua fotografia e vedo un ragazzo che oggi potrebbe essere mio figlio. Lui è per sempre giovane e io, in quegli attimi, torno ad essere il suo.

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